UN VIAGGIO NEI LUOGHI DELLA MEMORIA 

 

Manzoni e Mann ci hanno insegnato che scendere nel pozzo del passato significa acquisire un punto di vista più profondo. Ma Nietzesche ammoniva sui rischi di allontanarsi dal presente, di sostituire la nostalgia o il rimpianto al contatto diretto con le cose e gli uomini del nostro tempo. Ma la memoria con cui prendiamo consapevolezza della nostra storia passata, sospesa quasi nel vuoto del nostro stesso essere finito, può avere anche un ruolo attivo, come un invito al confronto con ciò che sta intorno, con i compiti, le speranze e forse anche le delusioni del nostro presente. Così ricordare é anche un procedere in avanti, quasi un rivivere il passato nel futuro. Allo stesso modo leggere bene é alla fine un atto etico, una scelta, un orientamento vitale.

Svevo parlava di un “ avvenire dei ricordi”; questi non sono statici, fissati una volta per sempre, ma mutano col divenire della nostra vita, contribuiscono a plasmare le nostre nuove esperienze e divengono plasmati, (come l’artista plasma la creta con i polpastrelli delle sue  mani, per creare una immagine del suo passato e per riviverla  poi nel suo presente).

Il divenire non riguarda soltanto ciò che é accaduto, ma anche colui che riconsidera e un poco ricostruisce gli eventi dietro di lui, che sono nello stesso tempo ombra del suo spazio interiore. Nel momento stesso in cui i ricordi si affollano e si ordinano, essi non sono qualcosa d’immobile e definitivo perché si modificano proprio alla luce della rievocazione e diventano parte del presente, si muovono quasi sul suo ritmo, sul suo più o meno segreto impulso vitale. Quando si racconta, ancora con la voce diretta di una osservazione, faccia a faccia, come ci capita spesso a noi, che ci siamo definiti della “Terza età”, le immagini vengono di lontano, ma divengono nello stesso tempo un atto nuovo, un momento irripetibile del discorso, del colloquio con l’altro.

Da molti anni ormai, da quando abbiamo lasciato il servizio attivo nell’Arma Benemerita, noi pratichiamo l’escursionismo, non solo sui sentieri meravigliosi delle Dolomiti, ma anche nelle città più belle del nostro meraviglioso Paese, che é stato meta dei grandi viaggiatori fin dall’Ottocento. Fra questi vi erano pittori, poeti e scrittori, ma anche semplici cittadini stranieri, appassionati delle bellezze artistiche e paesaggistiche che la nostra penisola mediterranea poteva offrire e che tutt’oggi offre, non solo agli stranieri, ma anche a noi italiani che viviamo in questo   nostro solare e meraviglioso Paese.

Potremmo incominciare questo nostro ennesimo viaggio escursionistico, citando un personaggio a caso, uno dei tanti viaggiatori dell’Ottocento, che con le sue  opere fece grande il nostro Paese, ma non potevamo incominciare senza citare uno dei più grandi scrittori del passato:  Stendhal, gran viaggiatore e sublime bugiardo che vedeva l’Italia con l’anima innamorata. Ecco un binomio che apre prospettive immense dal punto di vista della letteratura, della storia, del costume, del viaggiare, delle arti figurative e musicali. Stendhal e l’Italia: non è possibile pensare a questo artista dalla prolifica e gioiosa attività scrittoria trascurando l’Italia e la felicità che questo Paese seppe donargli, assieme alla voglia di narrare, annotare, scrivere sempre e comunque, come per soddisfare un bisogno fisico. Da quel giugno di duecento anni fa - quando diciassettenne ufficiale al seguito delle truppe Napoleoniche che Primo Console entrò in Milano che, a suo dire, aspettava i Francesi per godersi un po' più di vita - furono quarant’anni di frenetico andare e venire, un turbine di  viaggi che ai compilatori di cronologie  e provoca il mal  di mare ( anche perché, l’autore de “Il rosso e nero” usava anche mescolare le carte, inventare).

Considerato che ai suoi tempi ci si muoveva in carrozza o in nave, gli ultimi quarant’anni di vita di Henri Beyle ( questo il suo vero nome) hanno dello straordinario: da Parigi, e da altre capitali europee, a Milano, poi ancora a Parigi e di nuovo a Milano, per poi andare, continuamente, a Roma, a Napoli, e a Firenze, Venezia, Bologna, Parma, Varese; e a Torino, Verona , Genova, Livorno, Siena, Ravenna e per finire a Palermo. Tutti luoghi del grande profilo paesaggistico, contenitori di immense opere artistiche e culturali, meta di milioni di turisti provenienti da tutto il mondo, perché il nostro Paese, rappresenta un mito, un’immagine della bellezza e del desiderio.

Ci siamo più volte domandato, ma che cosa cercava questo grande scrittore, in Italia? E cosa riuscì a trovarvi? La risposta é semplice: tutto, essendo per lui, il nostro Paese, la vita stessa, l’amore, la radice  del mistero dell’esistere tra il profano e il sacro. Ed é stato possibile, questo, perché se l’Italia é obiettivamente bella, per Stendhal ( come per tanti altri spiriti irrequieti del periodo romantico) essa era anche mito, immagine della fantasia e del desiderio. Ma si può dire di più e meglio: per Beyle la penisola - giardino affiorante nel Mediterraneo fu una sorta di canovaccio sul quale egli mise a punto il suo pressante bisogno di scrivere, di narrare, di costruire romanzi. Al punto di farsene strumento di propaganda che noi, cittadini di un’era in cui il primato dell’economia rifulge, definiremmo impagabile.

E’ talmente legato all’Italia il nome di questo grande scrittore francese, autore, tra l’altro, di Roma, Napoli e Firenze, che ne é prezioso ritratto nel sorgere del XIX secolo, che dodici anni fa un gruppo di studiosi fiorentini, come scrive  Matteo Collura, in un suo articolo, apparso sulle pagine del “ Corriere della Sera, del marzo 2000, individuò, o credette di individuare, una sindrome definita “ di Stendhal”: un mancamento, una forte perturbazione, uno scompenso psichico causato dalla troppa concentrazione, in uno stesso luogo, di arte e di storia. Quel che accadde a Beyle il 22 gennaio 1817, allor quando si trovò ad ammirare i monumenti funebri in Santa Croce, a Firenze.

Interessato a quanto avveniva nel nostro Paese, senza mai perdere di vista il suo passato, specie quello rinascimentale, Stendhal raccolse pile di manoscritti e documenti dai quali germogliarono le Cronache italiane: e altri scritti italiani sarebbero fioriti dalle sue mani se la morte non lo avesse colto ( con un attacco apoplettico, come lui puntualmente aveva previsto), a Parigi, la mattina del 23 marzo 1842. E non lo diciamo tirando ad indovinare, ma perché dopo la morte di Stendhal, nella sua biblioteca di Civitavecchia furono trovati quattro manoscritti in dialetto napoletano e romanesco.

Certamente ne sarebbero scaturite altre cronache, altre storie. Come quella che avrebbe avuto per protagonista un Michelangelo Bonarroti cinquantasettenne, innamorato di un bellissimo ragazzo romano, Tommaso dei Cavalieri.

“ Chi mi difenderà del tuo bel volto”, aveva scritto in una sua lirica il sommo artista e Stendhal, il 22 giugno 1832, trovandosi nella casa romana di via de’ Barbieri, avrebbe appreso che in quella  stessa dimora tre secoli prima si erano incontrati Michelangelo e Tommaso. E avrebbe avuto come una visione che lo avrebbe portato a dare senso compiuto a quel verso di Michelangelo ( un testo relativo all’episodio é stato pubblicato, nel 1995, da La vita Felice).

La musica e la pittura, oltre alle donne salottiere e di bell’aspetto ( tra queste, Angela Pietragrua, la “ sublime sgualdrina”, e Matilde Dembowski, l’agognata “ Matilde”) furono la grande passione per l’autore del De l’amour. E dunque non poteva esserci per lui Paese più appropriato dell’Italia. Parma con Correggio, Roma con Guido Reni, Napoli con il Teatro San Carlo e Milano, la Milano del suo cuore, con la magnifica Scala. E fu in un palco del celebre teatro milanese che egli incontrò Byron.

Milano era per lui la spensieratezza della gioventù e l’appagamento che gli veniva dall’essere stato al servizio di Bonaparte ( caddi con Napoleone”, scrisse quando l’imperatore dei francesi fu sconfitto a Waterloo). La Milano del Conciliatore, certo, quella che lui frequentò intensamente, la Milano del libraio - editore Anton Fortunato Stella, “presso il quale - ha raccontato Guido Bozzola in Vita quotidiana a Milano ai tempi di Stendhal ( Rizzoli) - nel 1825 soggiornerà il Leopardi e nel cui negozio il Manzoni fu colto da malore alla notizia della definitiva sconfitta di Napoleone”, e in seguito a quell’evento, scrisse l’intramontabile poesia del Cinque Maggio. Ma anche a Milano della donnetta che, come Stendhal riferisce di aver udito con i propri occhi, andando per strada imprecava contro “ quel maledett Bonapert”, perché a suo modo di vedere aveva fatto aprire la strada del Sempione, facendo così entrare i venti freddi del nord dritto in Milano. Gli studiosi si sono domandati e continuano a domandarsi cosa significa realmente l’italianismo del bonapartista, liberale, repubblicano, anticlericale Stendhal. E forse la risposta é : una forma della letteratura. Quella destinata agli happy dey, i privilegiati cui egli dedicò il suo romanzo forse più bello e più stendhaliano, La Certosa di Parma: i “pochi felici”, i privilegiati, appunto, coloro i quali sanno trovare nella letteratura e nell’arte forme  di vita diverse e più godibili di quella reale.

In questa introduzione, abbiamo parlato di Stendhal, del grande scrittore francese, ma oltre a questo grande artista vi sono altri illustri viaggiatori dell’Ottocento, che hanno percorso in lungo ed in largo il nostro meraviglioso Paese, ma soprattutto, oltre ad averlo amato, lo hanno illustrato con le loro opere . “ Il denaro va prosciugando nel mondo la poesia, ma solo un mercante potrà rallegrarsi di questo”. Così scriveva, nel 1871, Ferdinand Gregorovius, storico potente ed esaltante, oltre che poeta nell’opera e, ancor più, nell’anima. Abbiamo letto con particolare attenzione le sue opere che illustrano il nostro Paese, come: “ Sulle tracce dei Romani” e “ Sulle tracce dei Greci”, editi da (Messaggerie Pontremolesi). Nel  volume, sulle “Tracce dei Romani”, egli così conclude scrivendo: “ L’Italia é la madre della civiltà in occidente e la Pandora della sua cultura sia in senso buono che nel senso cattivo della parola. Se essa ora risorge e chiede il suo posto di nazione indipendente, fra tutti quei popoli che dopo aver da lei ricevuta la propria civiltà, la sfruttarono, la saccheggiarono, la signoreggiarono, lo fa in nome di un suo incontrastabile diritto. Si, questa é una nobile terra, degna dell’amore del genere umano! Ed anche in mezzo al caos sconfinato dell’età presente, in questa nauseante mescolanza di errori e di verità, anche oggi noi Tedeschi non possiamo, né mai lo potremo, far tacere la voce del nostro ardente voto per la liberazione di questa terra”.

E forse queste parole sono un monito sul quale la società del nostro tempo non farebbe male a meditare. Noi viviamo in una terra benedetta da Dio sotto ogni aspetto: per il clima, per il paesaggio, per il cielo, per il mare. Ma, soprattutto, viviamo in una terra benedetta dalla genialità, più ancora dal “ genio” italiano che ha lasciato la maestosa testimonianza della sua creatività quasi in ogni zona, in ogni angolo, potremmo dire, di questa nostra Italia.

Percorrerla in lungo e in largo cogliendone ogni aspetto, rivedendone lo spirito in ogni luogo, anche nel più sperduto paesetto, nella più angusta e quasi dimenticata valle o pianura, gustandone sin dal profondo la duplice bellezza, quella della natura e quella dello splendore delle creazioni del genio e della storia, rivivere e risentire e riscoprire fuori e dentro di noi tutta questa stupenda bellezza, ecco quello che ci consentono le pagine scritte da questo grande scrittore, da uno dei più affascinanti storici di tutti i tempi. E tale fu la passione che lo animò per tutta la vita per questa nostra terra, tale fu l’amore che per essa nutrì sia nell’esaltazione spirituale ed intellettuale di fronte alla “storia”, sia nella tenera e devota sensibilità quasi filiale con la quale seppe cogliere e penetrare l’anima italiana, che volle esser definito, nel suo necrologio, “ cittadino romano”!

Leggendo queste pagine noi sentiamo rinascere nell’anima nostra l’entusiasmo di essere non solo “ cittadini romani”, ma, soprattutto Italiani.

The Old Calabria

Per concludere questa nostra breve carrellata di personaggi storici, che hanno non solo amato il nostro Paese, ma lo hanno illustrato con le loro significative opere, vogliamo citare un altro grande viaggiatore dell’Ottocento: Norman Duglas, che ha percorso a dosso di mulo, in lungo e in largo la mia  bella Calabria, facendo ritorno  alla fine dell’ultimo conflitto mondiale dalla sua brumosa e fumosa Londra, per andare a morire ed essere sepolto nella bella Capri, avendo per sfondo il mare azzurro e gli splendidi Faraglioni. Tanto grande   fu il suo grande amore per il nostro Paese.

 Nel suo libro,  The Old Calabria,  egli ha così scritto: “ Siamo in fondo allo stivale, nel più bel paese del mondo. Penetrando nell’interno,  ne sono uscito entusiasta come della scoperta di un mondo nuovo pieno di d’incanti.

Che cosa sia questa bellezza, non é facile dire. Certo dipende in gran parte dello spiccato contrasto fra monti e marine, dall’alternarsi di vallate ubertose e cime granitiche arse al sole, dalla lieta improvvisa apparizione di un paesaggio pieno di luce all’oscura ombra di foreste impenetrabili, dagli ampi orizzonti aperti sui mari alle numerose gole alpestri, sonore di acque correnti.”.

Una descrizione sintetica, ma calda di viva simpatia, ne fece Paolo Orsi, l’insigne archeologo recentemente scomparso, che  al pari di Norman Duglas, la percorse più volte per ragione di studio: “ La Calabria, lunga ed angusta lingua di terra, protesa con le sue montagne centrali, tra due mari, quasi a stender la mano alla Sicilia, appunto per questa sua peculiare configurazione, presenta, come poche regioni d’Italia, panorami di una incomparabile bellezza e vastità. Nell’interno a brevi passi dalle coste, s’ergono ripidi monti con carattere alpestre, con dense  e cupe selve; clima rigido d’inverno, freschissimo di estate: lungo le coste, invece, clima e flora assolutamente meridionali, uguali, soprattutto nella metà inferiore della penisola, a quelli della Sicilia. Le valli di erosione che si portano dal crinale appenninico, per lo più bevi ed anguste, offrono al turista panorami di suggestiva bellezza, soprattutto negli sbocchi a mare visti dall’alto. Dalla divina vallata del Crati a Reggio affascinante, é tutta una sequela, una fantasmagoria di marine, di colli, di monti, di costiere, che s’immergono nel glauco mare, e nelle quali sono qua e là incastonate, gemme preziose, le reliquie di grandi ed illustri città greche, che resero famosa questa Italia antichissima, questa regione benedetta”.

Noi, come più volte abbiamo detto e scritto, siamo nati alle pendici dell’impervio Aspromonte, e quindi conosciamo questi meravigliosi luoghi. Chi voglia addentrarsi in questa regione benedetta, si fermi dapprima a Cosenza, chiamata l’Atene della Calabria, ricca di monumenti che ne documentano le dominazioni normanne, sveve, durazzesche, dominata dalla grande celebre Sila disposta a emiciclo dinanzi alle torri poligonali di Federico II e di Luigi III d’Angiò. E qui in questa storica selva, che s’innalza sino a 2000 metri in vista dello Ionio e del Tirreno, fra abeti e pini giganteschi che fornirono a Greci e Romani materiale eccellente per i loro navigli e travi robuste per le costruzioni delle basiliche e dei palazzi vaticani, si perpetuano come riti le arti della pastorizia, si sente la poesia virgiliana della vita rustica dall’ampio sano respiro.

Scendendo verso Sud, incontriamo dapprima Catanzaro, il punto più stretto della penisola calabrese, là dove Strambone ne vedeva cominciare una seconda, così da descrivere la Calabria come una penisola che ne contenga un’altra. Comincia da qui la regione delle Serre, una massa compatta di granito, che prende  diverse denominazioni: Gran Serra, Serra San Bruno, Serra di Vibo Valentia. Una visione d’insieme delle Serre si ha da Tiriolo, centro tra i più elevati della Calabria. In fondo allo stivale, ecco Reggio, le cui antichissime origini sono ancora argomento di disputa, bianca lungo la spiaggia, fra giardini di aranceti e di bergamotti, sulla riva di un mare più limpido e azzurro del cielo, di fronte a Messina, da cui nelle calme estive riceve gli incanti della Fata Morgana. Lungo lo stretto, che fu chiamato non senza ragione il Bosforo d’Italia, fra l’Etna bianca di neve a sinistra, i monti Peloritani di fronte, e, alle spalle, le amene colline che scendono dolcemente a terrazza dall’Aspromonte. Senza parlare della stupenda “Costa viola”, con Bagnara ,Scilla, il Monte Sant'Elia, ai piedi del quale si stende la bianca cittadina di Palmi. Dal Monte Sant’Elia,fin da bambino, ammiravo l’arcipelago delle Eolie, con i miei “ Giganti fumanti”: con al centro lo Stromboli e Vulcano, che hanno impressionato molto la mia fantasia  di fanciullo. Nella fantasia e nel ricordo di quel fanciullo, è rimasto indelebile il piccolo e simpatico borgo di Cosoleto, che gli diedero i natali. Lo rivedo ancora quel borgo antica, barbicato al culmine di una verde collina, dove germoglia la vite, l’ulivo  e il fico stendono i loro fruttiferi rami. Da quella felice posizione, l’occhio spazia nell’infinito orizzonte e si vede scorrere nella grande pianura il fiume Petrace, con le sue innumerevoli volute, che assomiglia ad un lungo serpentone che cerca di  raggiungere quella lunga striscia azzurra, che spesso mi domandavo da fanciullo che cosa fosse: era il mare.

Un  giorno ormai lontano, molto lontano, quel ragazzo disse al fiume: “ Sono qui, davanti a te, dolce fiume che ti disperdi nel mare. Fra poco non ci vedremo più. Le mie labbra tremano e i miei occhi sono lucidi di pianto. Chissà quante volte, con il pensiero, sono giunto con te sino alla foce, dove la tua vita si fonde nell’immensità del mare. Ma il mio viaggio non é finito, anzi, se vogliamo essere sinceri, ti confesso, che non é neanche ancora incominciato. Mi mancheranno le tue parole, il tuo respiro, il rumore fresco dei tuoi mulinelli e dei tuoi vortici fra una pietra e l’altra. Ricordo quando, nei lunghi pomeriggi d’estate, quando il sole brucia pure le pietre, con i miei coetanei eravamo sulle tue rive, per trovare un po' di refrigerio, sguazzando come pesci nelle tue acque fresche e ristoratrici.

Alla fine del  viaggio le tue acque limacciose diventeranno chiare come all’origine. Il principio e la fine hanno la stessa luce.

“ Ricordo ancora quello che mi dicesti all’inizio: “ Nacqui in un giorno di primavera fra le montagne bianche di neve e di silenzio assoluto delle grandi altezze, alle pendici del Montalto. Nella pace delle montagne dell’Aspromonte percepivo il respiro del Creatore”. E quel respiro che non ti ha abbandonato lungo il percorso, mi ha guidato verso la serenità.

Addio fiume, io mi fermo qui, al confine tra la terra  e il mare.

Così faceva a scrive del fiume Romano Battaglia.

“ Passerà il tempo e del fiume rimarrà solo

   un sogno  o una voce che giunge dall’infinito.

  Quando non si udranno più le sue parole a

Guidare il nostro cammino, allora anche noi

Diventeremo un sogno, il grande sogno del

Fiume della vita”.

Qui termina il fugace viaggio nella memoria. Concluderlo in una sintesi non é facile. Come tutte le cose veramente forti e pure, la My Old Calabria  ha bisogno di spiriti profondi per essere compresa e di anime vergini per essere amata. Qualcuno, non ricordo chi, l’ha così definita: “Terra di  meditazione, si apre intera con le sue luci abbaglianti e le sue cupe ombre ai pellegrini silenziosi e pensosi della bellezza. Il suo fascino, lontano dai soliti allettamenti preparati in altri luoghi, é lento ma duraturo; e  come quei profumi, che sembra debbono subito svanire, eppure resistono al tempo e penetrano di sé ogni cosa"-                                                                                                                                  

 AVANTI CLICK