LE
PALE DI S. MARTINO DI CASTROZZA.
9
Settembre.
Dopo
la meravigliosa esperienza del grande fiume della vita,
in questa giornata meravigliosa di sole di questa prima settimana di
settembre, siamo saliti fin quassù, in questo paradiso terrestre del Gruppo
delle Pale, posto nell'incantevole località di San Martino di Castrozza. Questi
luoghi, ormai a noi noti e
familiari, per esserci venuti più volte, ma fino a quest’altezza non ci
eravamo mai spinti. Si, è vero, non siamo saliti attraverso i sentieri che
conducono alle alte altezze, ma con
la funivia della Rosetta fino al rifugio Pedrotti alla Rosetta, che ci ha
portati a quota 2658 metri, da dove la vista spazia nell’immensità delle
meravigliose e uniche cime di questo spettacolare gruppo e da dove si gode un
panorama mozzafiato in quell’orizzonte senza fine.
Dal
passo s’inizia a scendere su un percorso tracciato in mezzi ai ghiaioni,
transitando tra pareti strapiombanti, fino al rifugio Pradidati m. 2278. Da
questo rifugio, si percorre il sentiero numero 715 che, dopo aver superato il
Passo Ball m. 2443, il cui passaggio è facilitato da alcune corde metalliche
fissate alla parete rocciosa, superando infine un facile nevaio. Quella è la
Val di Roda, che si percorre fino al Col dei Becchi m.2048,
transitando sotto la strapiombante parete ovest della Pala di San
Martino. A questo punto la discesa si fa più rapida nella stretta Valle di Roda
inferiore, fino a quota 1550 metri di quota, ove si incrocia una strada
forestale con la quale si fa ritorno a S. Martino di Castrozza.
Per
scrivere questo pezzo, come direbbe
un vero cronista o un bravo scrittore, ci
siamo documentati su carte topografiche e libri di montagna, attingendo anche
dal libro “ Dolomiti” di Mario Scarpa, nel quale racconta la storia e tutte
le montagne dell’arco Alpino e delle Dolomiti in particolare.
Incominciamo
col dire, che il Gruppo delle Pale , è la dominazione più breve di
un’insieme montuoso e compatto, che con la sua posizione meridionale chiude il
settore delle Dolomiti occidentali. Il nostro occhio di appassionati della
montagna in generale, ma in particolare poco esperti di questi plessi
meravigliose delle Pale di S.
Martino, hanno individuato l’arditezza dell’architettura e la schietta
espressione dolomitica, che distinguono nettamente questo esteso complesso, dal
restante ed adiacente ambiente alpino. Un
susseguirsi di vallate e passi, ben riportate dalle varie cartine tipografiche ,
che ci sono state distribuite dall’organizzazione CAI di Mantova, prima di
iniziare questa bellissima escursione, che delimitano più o meno marcatamente
questo mondo di roccia e sottolineano i vari sentieri da percorrere. Notiamo che
a Nord del Gruppo delle Pale, troviamo il Passo di Valles e le Valli del Bois-
Cordevale; ad Est le Valli Cordevali -Mis a Sud il Passo Cereda e la bella Val
Canali; ad Ovest la Val Cismon che dapprima scende
a S. Martino, proseguendo ed allargandosi poi nell’amena conca di Fiera
di Primiero, con la sua meravigliosa foresta di alti e bellissime
abetaie, che bucano il cielo in cerca della luce.
Un’altra
località che più volte abbiamo ammirato, è
la depressione del Passo Rolle,
che separa infine quest’ambiente dolomitico dalla porfirica e lunga serie di
cime dal Lagurai. “Questi limiti che lambiscono alla base le possenti pareti
del gruppo, sono gli estremi lembi di due province Trento - Belluno,
rispettivamente felici di avere un così grande patrimonio”.
Adesso,
ci vogliamo soffermare sulla cime più belle del Gruppo, con la spedita e più
di tutte elevata Cima Vezana, e il Cimon della Pala sono i due maggiori pilastri
della classica zona centrale. Ma come si può non soffermarsi e parlare della
vetta più nota e frequentata, teatro di gloriose conquiste? Anche se non
raggiunte il tetto del gruppo, il Cimone con la sua possenza, risulta
l’assoluto sovrano di tutto l’ambiente. “Non ha torto è stato
soprannominato il Cervino della Dolomiti, e se rispetto al vero presenta una
taglia più umana rimane pur sempre uno snello gigante. Pallido e avvolto da
candide nubi può apparire al mattino, ma col crescere del giorno, calde tonalità
lo tingono, fino a quando l’ultimo baci del sole come una fiamma
l’accende”.
Ma
se dall’alto di questa bellissima montagna, guardi verso Sud, vedi un
‘interessante ramo, che raccoglie le superbe Cime di Ball, della Madonna e del
Sass Maor. Essi emergono eleganti dal verde del bosco, queste vette sovrastano
la ridente conca di S. Martino, e completano questo scenario grandioso. “ Ad
oriente prima di smorzare il loro impeto, le Pale di san Martino erompano ancora
con altre catene di colossi, dominate con regale solennità dalla Fradusta,
sempre vestita dal bianco manto del suo luccicante ghiacciaio”.
In
questo complesso montagnoso, dove il solitario escursionista rimane incantato di
così tanta bellezza, spesso, chiude gli occhi ed immagina di trovarsi nel
paradiso terrestre, ma non c’è bisogno di sognare, perché quello è
effettivamente il paradiso dolomitico, dove il profumo intenso dei fiori di
campo ci riempie le narici e ci da
la gioia di vivere. E se poi si ferma e guarda in alto, rimane impressionato
delle architetture creati dalla natura in milioni di anni, e
oltre a queste architetture geologiche, vi è un cielo immacolato, che
spesso è tinto d’azzurro o di rosso con qualche pennellata di nuvola.
Osservando tutto questo, mi dava la sensazione di osservare un bravo
acquerellista, mentre stava acquerellando questi fantastici paesaggi. Mentre
transitavo sotto le Pale di S. Martino, un amico che mi precedeva, mi ha detto:
“ Guarda, Diego, questi bellissimi paesaggio metafisici che ci circondano”.
Questi, mio caro Mario, sono
paesaggi reali e non metafisici. La metafisica fa parte della filosofia che
tratta dei principi universali dell’essere, posti oltre la conoscenza
sensibile e, in generale, al di là di ogni esperienza diretta dell’uomo. Fare
della metafisica, vuol dire che si
dedica a teorie astruse, lontane della realtà.
Queste
stupende cime sono punteggiati da tanti rifugi alpini, come il Mulaz, Pedrotti
alla Rosetta, Pradidali, Treviso in Canali e Velo della Madonna, anche se pochi,
sono assolutamente adeguati per accogliere la massa di escursionisti, che ogni
giorno, percorrono questi sentieri, per godere di queste bellezze non comuni.
Poi, come ci suggeriscono le nostre
guide, vi sono una serie di bivacchi fissi che forniscono ottimi punti
d’appoggio per traversare, escursioni ed ascensioni di grande interesse.
“Anche per coloro che con la giusta preparazione vogliono cimentarsi sulle due
impegnative vie ferrate del Cimon della Pala e della Cima Madonna, tali appoggi
si riveleranno altrettante utili”. Naturalmente, questi percorsi non sono
adatti alla nostra preparazione, che siamo e rimaniamo, buoni camminatori e
appassionati di questi paradisi terrestri. Il freno che ha limitato il sorgere
dei rifugi, è dovuto alle molte località turistiche che fanno da cornice al
grandioso quadro delle Pale di San Martino.
“
Questi centri oltre ad aver creato
un'abbiente d’alta classe, costituiscono indispensabili punti di partenza per
accedere al Gruppo delle Pale, consentendo inoltre bellissime passeggiate fra il
verde dei boschi e valli. Primeggia fra tutti l’incantevole località di San
Martino di Castrozza, attorno al
quale si è ormai polarizzata
l’attenzione di mezzo mondo. Come abbiamo detto sopra, noi conosciamo molto
bene questi luoghi e, ogni volta che ci ritorniamo, abbiamo compreso che è il
centro di villeggiatura più conosciuto ed equilibrato dell’intero arco
alpino, che offre nel giro di pochi chilometri qualsiasi tipo di attività ed
attrattive. “ La sua indiscutibile propaggine è costituita dal Passo Rolle
che presenta sia d’inverno che d’estate un paesaggio di grande relax, ed
un’eccellente organizzazione turistica e sportiva. Mentre sono seduto davanti
al computer, e cerco di descrivere questi meravigliosi luoghi, che mi hanno dato
tanta gioia nel percorrere i suoi sentieri, mi vengono in mente, oltre a San
Martino di Castrozza, le località di Fiera di Primiero, Paneveggio, Cencenighe
ed Agordo, che sono altri caratteristici paesi dolomitici, animati dal verde e
dall’imponente sfondo roccioso delle Pale di S. Martino. E poi, fra questi
luoghi, vorrei includere il piccolo
borgo di Crocedaune: un grumo di case barbicate sul costone che domina la Valle
di Feltre, che è stato in passato, una nostra base di arrivo e di partenza, che
ci ha dato la possibilità
di scoprire per la prima volta Fiera
di Primiero, Paneveggio, San Martino di Castrozza, Passo Rolle e la
Baita Segantini, famosa costruzione al cospetto del Cimone e della
Vezzana.
“Questo
paesaggio alpino di grande bellezza e suggestione, è stato inserito nel vasto
Parco Naturale di Paneveggio - Pale di S. Martino. E’ un Parco questo che va
tutelato e rispettato dai noi tutti, perché fa parte del patrimonio
dell’umanità. Da qualche tempo ho l’impressione che la società civile stia
diventando sempre più violenta. Non penso tanto alla criminalità organizzata,
quanto all’incattivirsi dei rapporti interumani. L’abbiamo visto nei
continui incendi del nostro patrimonio boschivo, che in certe zone del nostro
meraviglioso Paese, che non a torto, è stato definito il giardino del
Mediterraneo, hanno distrutto tutto. Si fa presto incendiare e distruggere un
bosco, ma ci vogliono decine di anni prima di
riportarlo alla normalità, come lo stiamo osservando noi oggi, in questa
nostra bellissima escursione.
Alla
fine del nostro trekking, che poi non è stato altro che una piacevole
passeggiata fra quelle colorate
cime, vallate verde scure delle alte abetaie, ampi panorami sulle fresche
vallate, antiche borgate: valli recondite nascoste nelle pieghe dei suoi valloni
scorci e paesaggi di insospettata suggestione delle Pale, ci siamo fermati nel
rifugio Padrotti, per una frugale colazione. L’aria dapprima fresca e alquanto frizzante, nelle ore centrali del giorno si
era scaldata ed era piacevole stare seduti sulla veranda del rifugio, dove
abbiamo anche pranzato. Il clima di
queste montagne, che si innalzano verso il cielo, risentono ovviamente nei mesi
estivi delle masse d’aria calda e umida che, risalendo dalle vallate,
condensano frequentemente in nebbie e vapori. Ma oggi, non si è verificato
tutto questo, mentre il cielo era terso ed il sole splendente. Da quel balcone
panoramico, del rifugio Padretti, da dove l’occhio poteva spaziare
all’infinito, il mio ricordo mi portava lontano nel tempo. Si, è vero, quelli
della mia età, che apparteniamo ad un’altra epoca, spesso facciamo dei
confronti tra il passato ed il presente. Ma anche quel punto, come scriveva
S'Agostino, trasvola così rapidamente dal futuro al passato da non avere
estensione alcuna di durata. “ Il presente del passato è la memoria, il
presente del presente è l’intuizione diretta”. Si, è proprio così, il
presente del passato è la nostra memoria, e noi viviamo di ricordi. Vivendo
questo nostro presente, abbiamo compreso che a quest’ultima generazione
bisognerebbe ridare importanza alla capacità individuale di autogoverno
morale. Cresce nella società dei giovani come in quella di noi adulti, il
bisogno di lealtà, fedeltà, giustizia, merito, obiettività. Ma questi valori,
queste virtù, che un tempo erano la guida spirituale e civica dell’uomo, oggi
sono stati annullati e mancano del
tutto. “ La società è sempre più violenta, e quindi, dovremmo riscoprire la
coscienza dell’individuo”.
LA
SOCIETÀ' CHE CAMBIA.
Se
vogliamo analizzare il fenomeno negativo del nostro tempo, in questa società
sempre più violenta, dobbiamo riscoprire la coscienza dell’individuo, che con
le sue manifestazioni si fa sempre più violento e irrispettoso delle leggi.
Guardando questi meravigliosi boschi che ci circondano, ci viene in mente di
pensare agli incendi boschivi, che
ogni giorno lo distruggono. Possiamo dire che gli incendi ci sono sempre stati
fin da quando è apparso l’uomo sulla terra, mentre oggi, nell’epoca
tecnologica e dei consumi, il fenomeno ha assunto proporzioni impressionanti.
Una volta gli incendi si verificavano per cause naturali oppure per incuria,
disattenzione e spesse volte anche
per dolo. Erano i pastori, per creare nuovi pascoli. Oggi, avvengono per mano
della delinquenza organizzata, per creare nuove aree da destinare all’edilizia
abitativa e soprattutto per garantirsi il posto di lavoro.
Oggi, viviamo in una società in continuo cambiamento: una società che
stenta a trovare il suo giusto equilibrio.
Come scrive il sociologo F. Alberoni, nella sua rubrica “ Pubblico
& Privato”, sulle pagine del Corriere della Sera: “Lo vediamo negli
stadi, dove bande di teppisti si scontrano, incendiano e danneggiano tutto
quello che capita. Lo vediamo nella guerriglia organizzata delle frange
anarcomarxiste del movimento antiglonbal. Lo vediamo osservando gli
automobilisti che sembrano presi da raptus. Lo vediamo nelle imprese dove, poiché
tutti hanno una maggior possibilità di carriera, è enormemente aumentata la
competizione reciproca. Una
competizione che, soprattutto nelle imprese pubbliche o in quelle
di grande dimensione, assume caratteristiche “ politiche”, con
formazione di gruppi, coalizioni, alleanze, cordate, assalti al potere. Un
fenomeno che un tempo avveniva solo al vertice, ma che ora e sceso a tutti i
livelli.
Parallelamente
contano sempre meno le località, la fedeltà, il merito acquisito
nel corso degli anni.
Nel
vuoto creato dalla decomposizione delle nazioni e dei grandi partiti ideologici,
si fanno strada formazioni sociali che potete chiamare confraternite,
associazioni segrete, tribù, o mafie a vostro piacimento, che hanno come scopo
esclusivo il successo, il potere e il guadagno. Dove il merito, sempre elogiato,
sempre esultato, in realtà conta solo per i proprio accoliti. Quando cambia la
coalizione non si fanno strada i più meritevoli, ma quelli che appartengono al
gruppo vincente. E vengono ammessi tradimenti e inganni che un tempo avrebbero
suscitato riprovazione e condanna. A poco a poco vengono considerate debolezze e
ingenuità tutte le virtù tradizionali e ammirati solo gli egoismi,
l’arricchimento e le sopraffazioni.
Probabilmente
questo fenomeno è dovuto alla scomparsa dei grandi meccanismi sociali che
scaricavano l’aggressività all’esterno della società con le guerre, le
lotte ideologiche, i genocidi. Il nemico era sempre all’esterno, e
all’interno c’erano l’amico, il fratello, il compagno. Però, da oltre
cinquant’anni, in Occidente, non ci sono più guerre. Inoltre, dissolto il
comunismo sovietico, sono diminuite, se non scomparse, le contrapposizioni
ideologiche. Ridotte queste spaventose valvole di scarico, l’aggressività
rifluisce nella società civile come aggressività e competizione diffusa”.
Il
sociologo e tutti gli studiosi che studiano
l’origine, lo sviluppo dei fenomeni sociali, la struttura di una società,
la composizione e le caratteristiche dei vari gruppi che ne fanno parte, si
domandano: Cosa fare allora? Anni fa David Riesman aveva annunciato la scomparsa
dell’uomo autodiretto, che trova l’orientamento in se stesso nei suoi
principi, nei suoi valori morali, e il trionfo dell’uomo eterodiretto che
segue le correnti sociali. Ma questa strada ci sta conducendo alla lotta di
tutti contro tutti, a una vita arida e infelice,. Ebbene, io penso che sia
giunto il momento di mettere da parte l’uomo eterodiretto, e di ricostruire
nuovamente l’uomo autodiretto. Ridare importanza alla capacità individuale di
autogoverno morale. ( Cresce dovunque nella società, nei giovani come negli
adulti, il bisogno di lealtà, fedeltà, giustizia, merito, obiettività).
Cresce dovunque, in Italia come negli altri Paesi dell’Occidente, il bisogno di incontrare
nuovamente persone sincere, attendibili, che hanno interiorizzato questi valori,
queste virtù, e agiscono coerentemente. E sono convinto che, nei prossimi anni,
ridaremo importanza a questa morale individuale anche per ricostruire la
politica e i suoi principi ispiratori.
Mentre
i boschi delle alte abetaie nelle valli sottostanti incominciavano a
diventare sempre più nere, il sole si apprestava a tramontare dietro
l’appuntito “Cimon della Pala ed i colori si facevano sempre più accesi,
fino a quando l’ultimo bacio del sole come una fiamma l’accendeva, così
pure il cielo era tinto di rosso. Infondo al costone, anche le rare betulle, le
brughiere e gli antiche borgate in pietra e aperti panorami sulla grande vallata (....) “In queste
immagini è l’essenza della Val di San Marino di Castrozza, ricchezze che una
valle ricca di bellezze nasconde nelle pieghe dei suoi impervi valloni e che
attendono di essere percorse, capite ed apprezzate dagli instancabili
intenditori e soprattutto dagli
scalatori ed escursionisti che
vivono la montagna”.
Osservando
la bellezza del tramonto del sole, mi è venuto in mente il primo capitolo di
“ Così parlò Zarathustra”, di Nietsche: (.....) “ Al compimento del
trentesimo anno, Zarathustra lasciò la sua patria e il lago della sua patria e
andò sui monti. Qui godette del suo spirito e della sua solitudine e per dieci
anni non se ne stancò. Ma alla fine il suo cuore si trasformò - e una mattina,
alzatosi con l’aurora, si fece al cospetto del sole e così gli parlò:
“
O grande astro, che cosa sarebbe la tua felicità se tu non avessi coloro a cui
risplendi?
Per
dieci anni sei venuto quassù alla mia caverna: della tua luce e di questo
cammino ti saresti saziato senza di me, della mia aquila e del mio serpente.
Ma
noi ti abbiamo aspettato ogni mattina, ti abbiamo preso il tuo superfluo e ti
abbiamo per ciò benedetto.
Vedi:
io sono tadiato della mia saggezza, come l’ape che ha accumulato troppo miele,
ho bisogno di mani che si protendano .
Vorrei
donare e distribuire, finché i savi tra gli uomini tornassero a rallegrarsi
della loro follia e i poveri della loro ricchezza.
Per
questo devo scendere in basso: come fai tu
la sera, quando vai dietro il mare e porti ancora luce al mondo intero,
ti astro straricco!
Devo,
al pari di te, tramontare, come dicono gli uomini tra i quali voglio discendere.
E allora benedicimi, occhio placido, che senza invidia puoi contemplare anche
una troppo grande felicità!
Vedi:
questo calice vuol ridiventare vuoto, e Zarathustra vuol ridiventare uomo”.
Così
cominciò il tramonto di Zarathustra.
Noi,
siamo saliti fino alla cima di questa alta montagna, armati dalla sola ragione,
perché l’uomo cerca da secoli la spiegazione ultima del significato della sua
presenza nell’universo, dell’organizzazione del mondo, delle modalità con
cui la sua stessa mente è in grado di pensare. “ Una cosa è dimostrare a un
uomo che è in errore, un’altra è metterlo in possesso della verità” (Lucke).
Noi siamo saliti al vertice della grande montagna, per trovare noi stessi e la
verità delle cose . Se non abbiamo trovati tutto questo, almeno abbiamo trovato
noi stessi e la gioia di vivere. Qualcuno potrebbe dire che è un’effimera
cosa che dura solo un momento, si è vero, è una cosa caduca come le foglie,
che per la loro natura sono destinate a durare poco tempo, fugace come la
passione, transitoria come la vita stessa di ognuno di noi, che è fragile e
leggera, come la piuma di una capinera ferita, ecco che cos’è la vita!.
THE
DAY AFTER .
In
un momento di riflessione, quando eravamo seduti davanti al Rifugio Predrotti,
nella depressione della cima Rosetta, mentre ci scaldavamo
ai raggi di un sole pallido
e ammiravamo quel paesaggio metafisico e lunale, fatto di granito e contornato
da doline carsiche: un paesaggio strano dove la natura si è dimenticata di
metterci gli alberi, ma è pur vero che a quell’altezza, a 2700 metri di
quota, non si poteva pretendere di trovare un giardino verde e fiorito. Però,
fra quelle crepe della bianca montagna granitica, abbiamo visto ed ammirato un
piccola pianticella fiorita, un dono dalla natura. In quella pace solitaria,
fatta di silenzi e di spazi infiniti, interrotta soltanto dal
gracchiare dei corvi e dalle cornacchie, una famiglia di taccole: uccelli
dei passeriformi simili alle cornacchie, ma più piccole e con piumaggio di
colore grigio argento ai lati della testa, venivano vicino per raccogliere le
briciole per la loro sopravvivenza, bastava che allungassimo una mano con delle
briciole sopra, perché queste creature si posassero per prendere il cibo.
Vedendo tutto questo, il nostro pensiero era rivolto alla società sempre più
violenta, alle contestazioni, alle lotte ideologiche, ai genocidi. Pensavo anche
alla fanciullezza e alla nostra epoca. In quel tempo il nemico era sempre
all’esterno, all’interno c’erano l’amico, il fratello, il compagno. Però,
da oltre cinquant’anni, qui da noi in Occidente, non ci sono state più
guerre. Si, é vero, abbiamo vissuto un lungo, lunghissimo
periodo di pace, ma oggi quella pace é stata distrutta, é stata
annullata. L’America é stata colpita dalla più sanguinosa tragedia della sua
storia che da oggi al mondo una lezione di grande dignità. Il giornalista Ennio
Carretto, in un suo articolo così scrive: “ La nazione c’è : nell’eroico
sacrificio dei suoi pompieri, nella generosità dei suoi volontari, nella
straordinaria gara di solidarietà della sua popolazione, nella composta
sofferenza dei newyorchesi, in quei tassisti, a volte cinici e indifferenti,
trasformati in tanti premurosi barellieri”.
La
superpotenza ha visto crollare di colpo, insieme al Word Trade Center e al
Pentagono, il mito della propria granitica sicurezza, ma i leggendario spirito
americano si é subito rigenerato, quasi avesse trovato alimento nella polvere
di Manhattan. L’America si é fermata, ha chiuso Wall Stret, lo spazio aereo e
le frontiere, i monumenti e persino Disney - land ma si mobilita come in una
emergenza bellica, dispiegato le portaerei nella rada di New York, mandando la
Guardia nazionale nelle strade di Washington.
Oggi
gli stati Uniti vivono la seconda Perl Harbor: e ancora una volta l’attacco é
arrivato dal cielo. Ma le bombe sono scoppiate tra le mura di casa, sui
grattaceli di New York e di Washington, il Pentagono é in fiamme.
L’America
é in stato di guerra, e se una volta si diceva che non esistono isole felici,
come quella del Cimon alla Rosetta, in quell’isola felice e solitaria fatta di
granito, di silenzi, di celo e di orizzonti, dove si sentono soltanto il
gracchiare delle taccole, possiamo aggiungere che un giorno, se continuiamo di
questo passo, neanche queste meravigliose montagne saranno sicure, come é
risultato per la grande metropoli, per quell’isola felice di New York.
Noi
siamo sempre alla ricerca della felicità, della verità, di valori che
trasformino il nostro vivere quotidiano in un più pieno esistere, il tentativo di dare un senso al mondo che ci
circonda.... Mentre intorno a noi, giorno dopo giorno, tutto cambia sempre più
velocemente, i nostri interrogativi più profondi sono rimasti sostanzialmente
gli stessi a cui cercarono di rispondere Platone, Socrate, Epicuro.... Per
questo voglio invitarvi a riscoprire le radici del nostro passato, a meditare
sulla vita e sull’esistenza di ognuno di noi. Perché confrontarci con i
grandi del passato, che fanno parte della nostra storia e della nostra
tradizione culturale, perché essi possono aiutarci a comprendere il presente e
a costruire un mondo migliore.
Dopo
questa premessa, questa riflessione sul nostro tempo inquieto, che non sa
trovare la via dritta, quella giusto per un avvenire migliore, veniamo alla
cronaca dell’11 settembre, che sembra annunciare venti di guerra. Non so chi
fosse, forse un giornalista o un corrispondente della televisione, che in un suo
servizio, ha incominciato dicendo: “ Forse questa che sta per incominciare, é
la prima guerra del XXI secolo.
A
questo punto, ci domandiamo, ma dove sono finiti quei principi filosofici che il
filosofo greco Epicuro, emocriteo nella concezione della natura, che coltivò
l’amicizia e l’insegnamento che considerò i beni supremi per l’uomo; un
cenacolo di amicizia fu la scuola che aprì in Atene ( il Giardino) nel 306. Il
suo insegnamento morale ha come scopo il raggiungimento della felicità,
consistente in uno stato atarassia, cioè di tranquillità e di libertà
interiore? Non tutti gli uomini del nostro secolo, hanno compreso questi
insegnamenti, questi valori morali, che dovrebbero guidare gli uomini verso un
mondo migliore, verso quell’amicizia che
una piccola parte di noi sa
dove sta di casa. C’è sempre nel mondo qualche piccolo uomo, come Osama Bin
Laden, che nei suoi disegni criminali, un bel mattino si sveglia e decide di
attaccare l’America, di distruggere i simboli della sua democrazia. Questi
criminali, come scrive Oriana Fallaci, si sentono autorizzati a uccidere voi e i
vostri bambini perché bevete il
vino o la birra, perché non portate la barba lunga o il chiador, perché andate
al teatro e al cinema, perché ascoltate la musica e cantate le canzonette,
perché ballate nelle discoteche o a casa vostra, perché guardate la
televisione, perché portate la minigonna o i calzoncini corti, perché al mare
o in piscina state ignudi o quasi ignudi? Non v’importa neanche di questo,
scemi? Io sono atea, graziaddio. E non ho alcuna intenzione di lasciarmi
ammazzare perché lo sono. Da vent’anni lo dico, da vent’anni. Con una certa
mitezza, non con questa passione, vent’anni fa con questa roba scrissi un
articolo di fondo per il “
Corriere”. Era l'articolo di una persona abituata a combattere tutti i
fascismi e tutte le intolleranze d’una laica senza tabù. Ma era anche
l’articolo di una persona indignata con chi non sentiva il puzzo di una Guerra
Santa a venire, e ai figli di Allah gliene perdonava un po' troppe. Feci un
ragionamento che suonava pressappoco così, vent’anni fa. “ Che senso ha
rispettare chi non rispetta noi? Che senso ha difendere la loro cultura o
presunta cultura quando loro disprezzano la nostra? Io voglio difendere la
nostra, e v’informo che Dante Alighieri mi piace di più di Omar Khayan”.
Apriti cielo. Mi crocifissero. “ Razzista, razzista!” Eh, gli stessi
progressisti ( a quel tempo si chiamavano comunisti) a crocifiggermi. Del resto
quell’insulto me lo presi anche quando i sovietici invasero l’Afghanistan.
Li ricordi quei barbuti con la sottana e il turbante che prima di sparare il
mortaio, anzi a ciascun colpo di mortaio, berciavano le lodi del Signore?
“Allah
akbar! Allah akbar! Io
li ricordo bene”.
Lasciamo
lo sfogo della Fallaci, che ci sembra anche giusto, e veniamo al mattino
dell’11 settembre. Da una nota del giornale 24 ore, che abbiamo rintracciato
su Internet, così ci spiega, a grande linee, l’attentato a New York: “ Due
aerei , a bordo dei quali viaggiavano 164 persone, si sono schiantati sulle
Torri Gemelle a Manhattan e un terzo sul Pentagono. Entrambi le Torri sono in
fiamme. Secondo quanto riporta la Cnn, poco prima delle 9 del mattino ora locale
un grosso aereo civile, presumibilmente un Boeing 737, ha colpito una delle
torri e vi si è incastrato. Diciotto minuti più tardi un altro aereo, un
bireattore, ha colpito la seconda torre.
Le
due Torri Gemelle del World Trade Center a New York sono state teatro il 26
febbraio 1993 di quello che fu definito “il peggior attacco terroristico”
sul suolo americano. Ma ora la definizione é superata: questa volta il bilancio
potrebbe essere peggiore.
Per
quel attentato é stato condannato all’ergastolo il terrorista islamico Ramzi
Ahmed Yussef.
Uno
dei due aerei sarebbe un aereo American Airlines 767, secondo fonti del della
Cnn e sarebbe stato dirottato da Boston. Parlando alla nazione in diretta poco
dopo il disastro il presidente George Bush ha detto:” l’incidente alle Torri
Gemelle é da ricondurre apparentemente a un attacco terroristico”.
Manhattan
é stata isolata: tutti i ponti e il tunnel sono stati chiusi, l’isola é
tagliata fuori. Stato di emergenza in tutto il Paese, é la prima volta che
succede nella storia.
Tutti
gli aeroporti americani sono stati chiusi e sono stati cancellati tutti i voli
in partenza dai Paesi europei verso gli Stati Uniti.
La
Casa Bianca é stata evacuata, il terzo aereo ha colpito il Pentagono e a
Washington é in fiamme anche la National Mall, un sito storico della capitale.
Chicago,
Boston, Los Angeles sono in stato d’allarme e i palazzi
governativi potrebbero essere evacuati uno ad uno.
Una
prima rivendicazione del Fronte nazionale per la liberazione della Palestina é
stata smentita, ma la matrice islamica é quasi sicura.
Anche
il dipartimento di Stato é stato evacuato e l’Air - Force One, con a bordo il
presidente George Buh in volo dalla Florida, non può atterrare per ragioni di
sicurezza.
La
seconda guerra del XXI secolo.
Si,
é vero, anche noi, come milioni di altre persone nel mondo, abbiamo appreso la
notizia del proditorio attacco alle Torri Gemelle del World Trade Center nel
cuore di New York da aerei di linea americani
dirottati da terroristi islamici,
gli ormai famosi kamikaze del XXI
secolo, attraverso i notiziari straordinari della TV, e dai vari servizi
giornalistici su Internet.
Nei
giorni che seguirono il proditorio attentato di Manhattan, sul nostro tavolo di
lavoro si sono accatastati una pila di quotidiani, che abbiamo in parte letti e
il resto ci accingiamo a leggerli, per farcene un’idea dell'accaduto. Tutti
riferiscono di questa grande tragedia, e non poteva essere diversamente, che ha
toccato profondamente il cuore degli americani. I titoli sono tutti diversi, ma
il significato é sempre lo stesso: “ Attacco al cuore di New York” -
“Apocalisse a Manhattan” - “ L’America in ginocchio, il mondo sotto
choc: crollate le Torri, evacuata la parte sud dell’isola” -
“Washington accusa il leader islamico Bin Laden che nega” - “Bush:
la pagheranno cara. Convocato il consiglio di guerra, cieli e frontiere chiuse:
l’America é isolata” “ Ciampi: l’Italia in lutto, Berlusconi: siamo con
voi” - “ Nel caos tutte le borse”.
“
L’America in ginocchio, il mondo sotto choc”.
“
A poche ore di distanza dal più clamoroso attacco terroristico della storia
umana, l’America paga un doppio, terribile tributo alla sua leadership mondiale: il bilancio definitivo delle
morti verrà diffuso soltanto in mattinata ( ora statunitense), ma i calcoli,
seppure approssimativi, enunciano cifre da ecatombe, tra le 10.000 e le 20.000
vittime, gran parte delle quali schiantate mentre si trovavano all’interno
delle Torri Gemelle, collassate su se stesse in drammatica sequenza.
Le
fonti ufficiali, che negano morti al Pentagono, ora ammettono che almeno 800
persone hanno perduto la vita a Washington. E poi c’è il contraccolpo sul
piano dell’immaginario collettivo, devastato da una variabile storica temuta,
esorcizzata a colpi di produzioni hollywoodiane e ora tramutarsi in tragedia
collettiva. Le dichiarazioni del sindaco Giuliani ( sorpreso in diretta dalla
CNN a rilasciare una dichiarazione in contemporanea al crollo della prima torre)
danno la misura dello sbigottimento e dell’impotenza che ha colto l’estabilishment
americano: “ E’ tremendo: ci sono migliaia di vittime. Abbiamo seguito in
diretta TV, che la gente si é buttata dai grattaceli, superstiti sanguinanti si
sono dati alla fuga per le strade calpestando anche i neonati, pur di mettersi
in salvo. C’è bisogno di sangue, negli ospedali newyorchesi e in quelli del
New Jersey” E’ il silenzio prolungato del presidente Bush, sballottato per
ore dall’Air Force One per i cieli d’America, é apparso il segnale più
evidente della crisi in cui é precipitata la Superpotenza.
La reazione degli States
sembrava aver preso corpo all’una del mattino ( ora italiana: esplosioni a
Kabul, la capitale che protegge e nasconde lo sceicco del terrore Osama Bin
Laden. Smentita ufficiale dell’Amministrazione Usa, ma gli esperti prevedono a
breve una violenta reazione da parte americana. E le ripercussioni sul
Medioriente oriente sono state immediate: Israele ha evacuato le proprie sedi
diplomatiche in tutto il mondo, mentre Arafat ha cancellato il viaggio siriano.
Il mondo, lo si voglia o no, é unito sotto lo choc che ha sbigottito la sua
componente occidentale e sotto la fitta rete di reazioni sospette che corre dai
Paesi arabi fino all’Estremo Oriente. Sarà questione di ore: decidere quali
direzioni prendere ( opzione isolazionista, quella militare o quella delle
operazioni coperte) determinerà comunque una svolta nella storia di questo
secolo. Una svolta che gronda sangue e immagini satellitari più simili a
effetti che alla realtà prosaica di un attentato”.
Molti
di questi articoli che abbiamo letti e riletti, e che continuiamo a leggerli con
molto interesse, forse domani, finiranno nel raccoglitore della carta straccia e
saranno sicuramente effimeri, ma noi vogliamo che essi rivivono ancora, perché
fanno parte del nostro tempo e della storia del giornalismo, e rimarranno
scolpiti dentro di noi. Per questo motivo, ne abbiamo selezionati alcuni, quelli
più significativi, che testimoniano la spaventosa tragedia del XXI Secolo, che
intendiamo farli nostri, per documentare queste poche pagine che restano di
questo nostro libro escursionistico, se così
possiamo definirlo.
Ferruccio
De Bortoli, sul “ Corriere della Sera”, così scrive: “ Siamo tutti
americani. Ancora paralizzati e increduli, ci vengono in mente le parole che
Kennedy pronunciò nel ‘63, prima
di essere ucciso, davanti al Muro: io sono berlinese. Allora si pensava che il
mondo fosse fragile e insicuro. Non
era così. Il Muro, per fortuna, non c’è più e noi ci sentivamo, fino ad
ieri, più sicuri e cittadini di un mondo migliore. Non era così. Il risveglio
é stato bruciante, come quelle fiamme che nelle Torri Gemelle di New York (
simbolo della potenza economica), o al Pentagono ( simbolo della potenza
militare) avvolgevano migliaia di vittime inconsapevoli. Ora siamo veramente in
guerra. E quel che é peggio, il nemico é invisibile: Tante vite ridotte in
brandelli e in cenere. Le altre, dei loro concittadini, sconvolte... Anche le
nostre, più fortunate, cambiano; le ferite che abbiamo dentro
sono invisibili ma indelebili. Quelle immagini strazianti rimarranno
scolpite dentro di noi. E non riusciamo a cancellare dalla nostra memoria la
scritta: “ America under attak” che la CNN ha scelto come titolo della più
spaventosa tragedia dei nostri tempo. Ci limiteremo a correggerla. E’ tutta la
civiltà sotto attacco”.
Si,
é vero, come dice l’articolista, siamo tutti americani come Georg W Bush che
l’imprevedibilità del disegno divino o casuale della storia ha posto in una
condizione persino più difficile di quella
che dovette affrontare, dopo Pearl Harbor, Roosevelt. E il nemico non
l’aveva in casa. Forse gli Stati Uniti allora erano più sicuri. Il più
celebrato servizio segreto della terra e la più discussa e temuta rete
d’ascolto e spionistica mondiale non hanno avuto il minimo sospetto.
La
violenta reazione degli Stati Uniti d’America, é stata
subitanea e improvvisa e quelle voci che correvano e si diffondevano nel
mondo Occidentale, erano veritiere.
L’attacco aereo
su Kabul, era incominciato improvvisamente all’una del mattino ( ora
italiana): l'esplosione a tappeto
sulla capitale dell’Afghanista,
che proteggeva e nascondeva lo sceicco del terrore Bin Laden, era ormai una
realtà. La guerra era incominciata in quella martoriata terra dei talebani. Con
la caduta di Kabul, il fronte si è spostato verso la roccaforte di Kandar e le
montagne bianche di Bora Bora, dove si era rifugiato l’esercito dei mercenari
di Bin Laden. Con la disfatta dei
talebani su tutti i fronti, la guerra nell’Afghanistan si poteva considerare
terminata, ma di Omara Bin Laden, nessuna traccia. Ancora oggi, i Marines e
l’esercito Afghano di liberazione, continuano le ricerche di Bin Lade e dei
maggiori responsabili del vecchio regime.
Kabul,
e tutte le altre città e villaggi dell’Afghanista, sono tutti da ricostruire.
Dopo il disastro della guerra, di quella politica sbagliata, arriva un nuovo
anno anche per l’Afghanistan, che sarà un anno decisivo. Un anno senza i
talebani che con il loro regime oppressivo avevano tolto molte libertà al
popolo. Il 2002 comunque non sarà facile: c’è da fare funzionare un governo
ancora traballante e c’è soprattutto da ricostruire un intero Paese. E non
vuol dire solo tracciare strade, compito già di per sé impegnativo. Bisogna
partire proprio dagli afghani. Pensate, secondo le informazioni che ci sono
giunti e che ci giungono giorno dopo giorno da quel Paese, che un terzo dei
cittadini non sa né leggere né scrivere. Le scuole sono state in gran parte
distrutte e attualmente possono accogliere solo il 7 per cento dei 4 milioni e
mezzo di bambini. C’è poi l’emergenza salute: solo un afghano su cinque può
farsi curare come si deve, in parte perché i talebani hanno licenziato tutte le
dottoresse e le infermiere, in parte perché molti medici sono fuggiti
all’estero. Gli ospedali, poi, sono pochi, concentrati nelle città, quindi
chi vive nei villaggi e nei paesini deve arrangiarsi. Infine, tra tutti i
problemi c’è quello delle mine: si calcola che in Afghanistan ce ne sono 7
milioni e toglierle tutte é un’opera lunghissima e costosa.
Un
Natale di speranza.
Nell’editoriale
della “Rivista il Carabiniere”, del mese di dicembre, così leggiamo:
L’avvicinarsi delle feste natalizie induce, come di consueto, a riflettere sul
“ proprio” anno che sta per concludersi e sulle speranze che riversiamo su
quello che sta per arrivare. Il Natale é il momento più intimo dell’anno,
quello delle giornate in cui il pensiero per la famiglia e per gli affetti ci
accompagna più spesso. E’ il tempo dell’attesa, del rinnovamento, e insieme
della ricerca del dono da far trovare sotto l’albero. Le famiglie si
ricompongono, i presepi, gli alberi , gli addobbi contribuiscono a formare la
magia del momento. Tutto sembra acquistare un ritmo più distaccato: anche le
quotidiane attività, con lo scandire dei giorni che separano dal 25 dicembre,
diventano meno di routine e cedono il passo ad una maggior voglia di essere
disponibili.
Nei
giorni difficili che il mondo vive, per alcuni pensare al Natale potrebbe
sembrare anacronistico, ma basta soffermarsi un istante per capire che invece é
esattamente il contrario. Lo spirito natalizio é inarrestabile quanto
persuasivo per molti motivi, a partire dalla grande speranza che questa festività
rappresenta. Anche i nostri marinai impegnati nel Mar Arabico in una difficile
missione di supporto, al termine dei loro turni di servizio si sono impegnati a
ricostruire un “ pezzo di casa” sulle proprie navi. Piccoli presepi e
piccoli alberelli sono così spuntati sull’incrociatore Garibaldi e sulle
altre unità impiegate. E lo stesso hanno fatto i nostri Carabinieri
all’estero, impegnati a salvaguardia degli interessi nazionali e in difesa di
irrinunciabili principi umanitari.
Certo,
questa sarà per tutti noi una festività diversa da quelle finora conosciute,
perché ci vedrà affacciati sull’anno che verrà con il cuore colmo di
interrogativi. La pace é un bene prezioso che deve essere preservato e
tutelato, a volte anche con azioni di guerra per difendersi da chi questa guerra
l’ha voluta. Nella notte più magica dell’anno, quando per i più piccoli
scoccherà l’attesa ora dei regali, il pensiero andrà a chi non avrà il suo
caro accanto ma lo saprà lontano, in missione, in Patria o all’estero, a
difesa dei valori che formano il tessuto della nostra civiltà. E proprio a
tutti coloro che il dovere terrà lontani dagli affetti più cari che vogliamo
dedicare un particolare augurio e un grazie di cuore.
Il
saluto ai soldati in partenza per Kabul.
E’
arrivato il giorno del commiato per i soldati dell’esercito italiano che vanno
in Afghanistan. Il ministro della Difesa, Antonio Martino, li saluta così, con
toni ispirati. Nel grande cortile della caserma Gandin i trecento cinquanta
erano schierati ad ascoltare i discorsi del ministro e del capo di stato
maggiore della Difesa. “ Troverete un territorio devastato dove regna miseria
e disperazione, mentre la speranza é purtroppo ancora una tenera
pianticella”.
Questo
saluto, lo abbiamo seguito in diretta TV, sul primo canale della RAI, nel
programma “ vita in diretta”. Alla fine del discorso si sono commossi un
po’ tutti, da una parte e dall’altra. “ Da quando sono ministro - ammette
Martino - non é la prima volta che saluto un contingente in partenza. Mo non mi
ci sono abituato. La commozione affiora sempre nel mio cuore”.
Gli
italiani, poi, si fanno sempre vanto delle loro qualità umane. Anche in campo
militare. Immancabile, quindi, un accenno all’epopea della “ brava gente”.
Dice il ministro: “ La nostra forza tranquilla e determinata é la risposta al
loro cieco e devastante fanatismo. Portate, ve ne prego, questi nostri caratteri
nel lontano Afghanistan. Portate sicurezza, ottimismo, speranza a quel popolo
sfortunato, i cui giovani hanno conosciuto solo la guerra e i vecchi hanno
dimenticato la pace”.
Non
sarà una missione facile, questa del contingente Isaf (Internazional Security
Assistance Force). In tutto sono 3500
uomini di 22 Paesi che si apprestano a garantire per i sei mesi la vita e la
tranquillità del governo ad interim di Hamid Karzai. Da Kabul giungono notizie
poco esaltanti: mine da ogni parte, scontri armati tra le fazioni, brigantaggio,
freddo. I terroristi non debellati del tutto. E l’inverno é arrivato
repentino. Su Kabul soffia forte il “ Kemal”, il vento delle montagne La
temperatura é scesa di molto sotto lo zero. Per via di una tormenta di neve,
ieri, il primo aereo militare italiano, al pari di quello tedesco, non é potuto
atterrare ed é stato costretto a fare ritorno a base Muscat ( Oman).
Come
apprendiamo dalle notizie dei nostri corrispondenti da Kabul: “E’ essenziale
che funzioni il ponte aereo tra l’Italia e l’Afghanistan. Soltanto per
portare i trecento cinquanta militari e il materiale caricato sulle jeep,
occorreranno - lo ha spiegato il capo di stato maggiore della Difesa, generale
Rolando Mosca Moschini - ben 12 voli militari e 4 civili. In ogni C130, infatti,
una volta sistemato nella stiva il carico, entrano al massimo quaranta soldati.
Considerato che all’Italia é stato concesso un atterraggio al giorno,
serviranno due settimane per completare il dispiegamento. Se poi ci si mettono
la neve e il ghiaccio, potrebbe andare anche peggio.
In
Afghanistan, intanto, i soldati occidentali sono molto attesi. Il governo
provvisorio, che aveva proposto molti paletti all’inizio della missione,
adesso vorrebbe un’estensione dei compiti, dei luoghi vigilati e anche dei
tempi. Agli italiani il compito di pattugliare i dieci chilometri di
strada tra l’aeroporto di Bagram e la capitale.
“
Per quanto ci riguarda - dice il ministro Martino - l’impegno sarà di tre
mesi. Poi ci sarà un avvicendamento. Altri andranno al posto nostro. Per
fortuna non c’è che l’imbarazzo della scelta considerando quanti Paesi
hanno chiesto di partecipare a questa missione. Però non so dire se al termine
dei tre mesi si sarà un totale disimpegno da parte nostra. Vedremo. Dipenderà
anche dai nostri alleati. Faremo assieme, al momento giusto, una valutazione.
Non possiamo dimenticare, però, la fortissima presenza italiana nei Balcani”.
Seguiamo
anche noi con molto interesse la cerimonia sul piazzale della caserma, dove sono
schierati i soldati che ascoltano i discorsi delle grandi occasioni.
Sono confluiti a Roma dalle
varie caserme e dalle diverse specialità. Ci sono i cavalleggeri delle
Guide, i carabinieri del Tuscania, i paracadutisti della Folgore, gli incursori
del Col, Moschin, e poi aliquote del Genio, delle Trasmissioni, del reggimento
NBC ( nucleare - batteriologico - chimico). Portano tutti il fucile a tracolla e
il fazzolettone al collo che distingue un reparto dall’altro. Nel piazzale, a
salutarli, c’è anche qualche made
o padre in apprensione. “ Fate il vostro dovere, ma con la massima
accortezza”, dirà poi al telefono il ministro parlando con il colonnello
Giorgio Battisti, che si trova già in Afghanistan e comanderà il contingente
italiano.
Marino
ha anche annunciato che é tramontata l’ipotesi di ammodernare l’aeroporto
di Kulyb, in Tagikistan. L’utilizzo stesso dei Tornado é in forse. “ Mi
sembra giunta al termine la stagione dei bombardamenti”. “ Quanto prima gli
italiani utilizzeranno una base aerea nel Karghizistan, dove sono già al lavoro
tecnici francesi e americani. Sarà quella la base dove gli aerei da trasporto
della 46’ brigata dell'Aviazione militare faranno scalo per portare in
Afghinistan aiuti umanitari e rifornimenti al contingente.
Noi,
come tutti gli italiani, diremo ai nostri soldati, tanti auguri ragazzi e buona
fortuna.
L’imbranato
Gelindo nel Paese dell’Avvento.
Sant'Agostano,
ha così scritto: “ Se possiamo farcene un’idea del tempo, quel solo punto
si può chiamare presente che non si può suddividere in particelle, per quanto
piccolissime. Ma anche quel punto trasvola così rapidamente dal futuro al
passato da non avere estensione alcuna di durata. Risulta però che futuro e
passato non esistono. I tre tempi
sono piuttosto il presente, il presente del presente, il presente del passato.
Il presente del passato é la memoria, il presente del presente é
l’intuizione diretta, il presente del futuro é l’attesa”. Si, é proprio
vero, “ futuro e passato non esistono, mentre il presente del passato è la
memoria” e noi, quelli della mia generazione, non hanno presente e viviamo dei
ricordi del nostro passato prossimo. Noi camminiamo, come ha detto un grande
scrittore, “su di un tappeto di foglie morte, dove
sono sepolte i nostri ricordi, la nostra storia e il nostro passato.
Negli anni Cinquanta, per ragione del mio servizio, vivevo in una tranquilla e
moderna città: Alessandria. In questa simpatica città, che è anche il paese
che diede i natali ad Adriana mia
moglie e anche ad un grande scrittore contemporaneo: Umberto Eco, che tra
l’altro, é anche il cugino di Adriana, in linea diretta.
Per rimanere sul tema del Santo Natale, diremo che in quella occasione,
ogni anno, andavamo nella chiesa di S. Francesco, per assistere ad una
centenaria e simpatica rappresentazione: la rappresentazione che percorre
l’epopea del pastore piemontese, nel presepe vivente.
Gelindo
ritorna davvero, e con molti onori. “ Gelindo ritorna é un modo di dire
dialettale, in Piemonte, per rispondere a colui che riappare continuamente o
sempre riprende il discorso già lasciato. Ed é anche un modo di dire che
annuncia il Natale: perché Gelindo - il pastore che incontra Giuseppe e Maria
in cerca di riparo per far nascere Gesù - é tradizione, ingenuità e bontà
popolare legate al 25 dicembre, che appunto si celebra puntuale ogni anno.
Gelindo
é personaggio della cultura popolare, come scrive Marco Neirotti, in un suo
articolo, “ al teatro, delle marionette. E’ il meticcio che ha qualcosa -
paesano anziché cittadino - di una maschera stile Gianduja e qualcosa di un
improvvisato e inconsapevole saggio della commedia dell’arte. E torna davvero
perché gli dedica un minuzioso studio Roberto Leydi, collaboratore di Luciano
Berio, saggista, docente di Etnomusicologia all’Università di Bologna. Quasi
400 pagine ( Omega Edizione) bella
colonna diretta da Piercarlo Grimaldi, professore di Antropologia culturale
all’Università di Torino. In apertura c’è una nota storica, affettuosa,
ironica e perfino autobiografica di Umberto Eco ( che apre questa pagina del
giornale).
La
storia molti già la conoscono, come del resto la conosciamo anche noi, cioè,
io ed Adriana. Adriana la conosce da sempre, mentre io solo dagli anni
Cinquanta, da quando ho conosciuto Lei. Gelindo é un pastore che parla soltanto
in dialetto e si trova a Betlemme perché a quella testa buffa dell’imperatore
Ottaviano é venuta la bella idea del censimento. Tra una disavventura e
l’altra al mercato, dove gli rubano con forza e destrezza un po’ dei suoi
prodotti, incontra fuori città un vecchio e una giovane incinta - che gli par
subito una signora con molto stile - i quali, stanchi e disfatti dal viaggio,
non riescono a trovare camere d’albergo
o rifugio qualsiasi. Vorrebbe portarseli a casa, ma la sua casa é lontana per
quella donna così bella e così gentile: Gelindo si affaticherebbe. saluta e se
ne va, ma subito richiama Giuseppe, perché ha avuto un’idea: suggerisce un
capanno, o una stalla, lì nei pressi.
Sulla
scena passano via via l’Angelo dell’Annunciazione così come la moglie del
contadino, Alinda. Passano Erode e i figli del buon uomo, i Re Magi e i
servitori di questo ingenuo, affascinato benefattore, in parte mancato, del
figlio di Dio. E lui stesso riappare a tratti in scena: Ritorna, appunto.
Gelindo,
pastore - contadino trasportato nel Paese dell’Avvento come Alice in quello
delle meraviglie, é stato per secoli una forma popolare di partecipazione
devota prima di tutto, ma anche di affermazione e identificazione di un mondo
spicciolo e umile capace di fede e guizzi di generosità: lui non sa di esser
così buono con la Vergine e con suo Figlio, é semplicemente ammirato da lei e
dal vecchio marito che l’accompagna.
Ci
pensa il dialetto - nei testi ricostruiti nel tempo e poi recuperati - a dare il
senso di quel che Gelindo rappresenta: scarpe grosse e cervello più che fino
incantato, quindi poetico. E’ straordinario - grazie a quelle vocali larghe e
a quelle parole così buone e invadenti nel suono - il momento dell’incontro.
Loro dialogano con un italiano ispirato, lui entra con la potenza della bontà
spontanea: “ Eh, brav’uomo, lo credo
che alla vostra età all’asilo le Scuole non vi accetteranno più”.
La
stessa storia si trova con Gianduja protagonista, ma con qualche differenza si
trova anche in altre regioni, tanto che se ne interessa perfino Benedetto
Croce,. Nel Piemonte stesso ci sono diversi Gelindo, con differenti afflati
religiosi nelle pause dedicate alle Lodi. C’è un Gelindo alessandrino( come
Umberto Eco che pur di recitarlo si traveste) come ce un astigiano e un altro
novarese; ce ne sono nelle Langhe, in Liguria, in Toscana, Lombardia, Veneto,
Emilia. L’autore é ignoto, la
data di nascita pure, qualcuno parla dell’undicesimo secolo. Illustri
religiosi l’hanno descritto nel tempo.
Roberto
Leydi procede da studioso di cultura come procederebbe un esperto della polizia
scientifica. Analizza ogni traccia, ogni variante, conta passaggi e personaggi
con una precisione e una passione che vanno al di là di qualunque sprint
dell’intelligenza artificiale dei computer, incapaci di cogliere varianti
nelle sfumature emotive della medesima scena. Copertine di libri, partiture,
immagini variabili di
rappresentazioni teatrali, testi scritti a penna in calligrafia d’epoca: é
l’archeologia applicata a un personaggio che é stato ciascuno dei nostri
antenati trasportato laggiù, vicino a Betlemme.
Il
semiologo e romanziere Umberto Eco
rievoca
una tipica maschera.
La
tipica maschera del presepe e le dolescenziali avventure sulla scena.
Egli così ricorda: “ Io credo si debba aprire un ampio ed approfondito
dibattito sul perché Gelindo ritorna.
Come
é noto, esistono in proposito due scuole di pensiero, che chiameremo la Scuola
di Bratislava e la Scuola di Koenigsberg. Secondo la Scuola di Bratislava,
Gelindo ritorna diventa espressione proverbiale
perché lo sciagurato pastore esce e rientra in scena ripetutamente, per
ricordare qualcosa ai suoi accoliti e familiari, e viene usata in Piemonte dai
vecchi quando qualcuno per smemoratezza o compulsiva inopportunità torna
ripetutamente, o almeno una volta, dopo che se ne era andato. Secondo la Scuola
di Koenigsberg invece ( e la mia memoria mi aiuta nel sostenere questa tesi) ,
dopo che in una località del Piemonte la bella consuetudine del Gelindo
natalizio si era istaurata, a ogni volgere di Natale i manifesti annunciavano
“ Gelindo ritorna”, nel senso di “ ritorna anche quest’anno a
deliziarvi, accorrete o pastori
Ho
a lungo pensato se valesse la pena di costituire una terza scuola di pensiero,
da intitolare a qualche nobile università mitteleuropea, per sostenere la tesi
più ragionevole: e cioè che entrambi e fenomeni si siano verificati e si siano
indissolubilmente intrecciati tra loro, talché dell’annuncio del ritorno
della “ divota commedia” si é tratta occasione per rilevare che davvero,
nella commedia stessa, Gelindo ritorna, e dall’osservazione Gelindo ritorna, e
che, pertanto, si era già diffuso il modo di dire, qualcuno abbia tratto
ispirazione per intitolare al ritornello ormai famoso l’annuncio del ritorno
della commedia.
diversi
nelle varie zone del Piemonte.
Il
mio interesse per il Gelindo anche se poi ho accolto nella mia biblioteca testi
classici come il Renier, é peraltro dovuto a vicende biografiche.
“
Io ho recitato nel Gelindo dei Cappuccini di Alessandria. Questo anzitutto mi
induce a ritenere la versione alessandrina non solo la più duratura ma anche la
più nobile e sviluppata fra tutte,
anche per la presenza di grandi attori che hanno tenuto banco per decenni, come
il Gelindo - Domenico Arnoldi e il Maffeo - Enzo Bocca, nonché per la inesausta
variabilità sempre aggiornata all’attualità politica e sociale della businà
iniziale ( di cui esiste un’ampia antologia).
In
secondo luogo le memorie del Gelindo si legano indissolubilmente alle memorie
dell’infanzia, dal giorno in cui mio padre mi portò a vedere per la prima
volta, e per l’affollamento della sala potei seguirlo solo stando a cavalcioni
sulle spalle paterne, come si conviene ad ogni rapporto tra nano e gigante.
Dopo,
ed eravamo ormai nell'adolescenza,
ho fatto il Gelindo. Ma siccome appartenevo a famiglia piccolo borghese che per
ragioni di dignità sociale aveva lasciato i figli estranei all’uso del
dialetto, non avevo sufficiente padronanza del vernacolo locale ( che peraltro
capivo e capisco e perfezione) per poter essere uno degli attori principali.
Ora, come si sa, gli attori principali parlano dialetto e italiano lo parlano
solo le figure secondarie.
Parlano
italiano, nel Gelindo di
Alessandria, il piccolo figlio di Gelindo ( ma io ero ormai più grandicello);
gli angeli, che però appaiono e cantano, e si richiedono voci bianche ( dopo i
quattordici anni io avrei già dovuto affrontare un processo di contrazione per
essere atto allo scopo), i centurioni, che venivano scelti tra i più grandi, e
dai più grandi era ruolo occupatissimo perché ci si vestiva con la corazza e
si maneggiava minacciosamente la spada; san Giuseppe, feudo inespugnabile, ai
miei tempi, di Luigi Visconti, che poi l’avanzare degli anni ha spinto verso
le vette del ruolo di Maffeo; i Re Magi, anch’esso ruolo blindato e
rigidamente controllato da alcuni privilegiati, perché un remagio si veste con
abiti sontuosi e damascati e incede con ieratica indolenza.
Restava
la Madonna. Il Gelindo dei frati era all’epoca patrilineare e virile ( ora ci
partecipano anche le donne perché si sa, dopo il Concilio e la messa in
italiano non c’è più religione). La Madonna doveva dunque essere
interpretata da un giovanotto. Per evitare incidenti, non parlava ( oggi parla
moltissimo e a mio parere quasi stona, introducendo una nota troppo cruscante e
femminile in quel bofonchiare e borbottare di pastori barbuti e puteolenti).
Infine, doveva stare sempre di profilo, col velo che
le scendeva a picco, in modo che non se ne scoprisse il volto - quasi
mistica prefigurazione di una martire afghana. Seguiva catatonica san Giuseppe
nelle scene d’inizio, e dall’ampia veste non si poteva né
si doveva indovinare se fosse incinta, e appariva dopo nella capanna col
bambino in braccio - devotamente sottratto al presepe, così che nel Gelindo il
Verbo non si faceva carne ma appena cartapesta.
Considerando
tutti gli elementi che ho elencati, se ne deduce che nessuno voleva mai fare la
Madonna, e a chi la faceva accadeva un poco come ai marina inglesi del tempo di
Nelson, che venivano sorpresi mentre barcollavano ubriachi per i vicoli del
porto, addormentati con una mazzata, e si trovavano il mattino dopo in alto mare
e in rotta per Trafalgar.
Talora
- continua Eco - ed era il mio caso, si accertava di far la Madonna per spirito
di collaborazione e soprattutto per poter stare lungo tutta la commedia non in
sala come gli allocchi, bensì tra le quinte, privilegio che persino a Broadway
é consentito solo al finanziatore dello spettacolo e amante della soubrette.
“Per
la verità di stare sulla plancia di comando, e dunque dalla parte del Potere
Manipolatore, dunque io facevo la Madonna - segno che quel sacrificio non mi
candidava al paradiso bensì all’inferno. Forse per questo sono diventato
poi professore, giornalista, scrittore: per stare dalla parte di chi il
messaggio lo produceva”. Forse, anche noi, per lo stesso motivo, siamo
diventati prima carabiniere e poi Maresciallo dei Carabinieri, per stare dalla
parte di chi aveva bisogno di essere tutelato, assistito nel bene e nel male;
perché il tutore dell’ordine è come il parroco del paese, il giornalista,
come lo scrittore e a volte anche come il professore, per stare dalla parte di
chi ha bisogno di essere informato e consigliato.
Anche
il professore Eco, come del resto siamo tutti noi dell’altra generazione, “
solo in tarda età scopriamo i ricordi della fanciullezza”. Egli scrive che
una sera, nella tarda età, andando a rivedere il Gelindo con un suo amico dei
tempi andati, ha sopportato per poco di stare dalla parte del pubblico e poi,
per una porticina segreta nota solo a loro due, sono entrati nel sottopalco,
hanno estromesso a calci alcuni giovincelli che stavano vestendosi da
centurioni, hanno indossato le corazze e gli elmi e sono entrati in scena. Chissà
quante volte, ho pensato la stessa cosa nel corso della mia vita e nella mia
lunga carriera di militare, ma oggi, nella mia posizione di libero cittadino e
di pensionato dell’Arma, non mi permette simili introduzioni e abusi, ma se
potessi lo farei volentieri, oh si, se lo farei. Nella vita pubblica del nostro
Paese si verificano cose impensabili, e gli autori di queste azioni si
meriterebbero proprio essere presi a pedate nel sedere. Se oggi, si vuole
ottenere qualche cosa, bisogna adoperare le maniere forti, ma questi metodi un
po' fuori dalla regola, ma questo é un comportamento
poco ortodosso. Il nostro é un paesaggio etnico giografico, psicologico,
politico diversissimo, frastagliato, pieno di imponderabilità.
Dalle
montagne altissime, nevose,
ghiacciate dei confini alpini alle spiagge iridescenti della Sicilia, al Carso
gelido, sibilante di vento e di tempesta alle isole mediterranee bianche e
assolate; dai boschi verdi dell’Appennino ai laghi fiabeschi dell’interno;
é una Terra magica, la nostra, diversificata dalle sue astruserie, bislacca,
mutevole fatta apposta per quel
gioco millenario del rimpiattino che é poi un po’ il compendio della sua
storia e della sua morale.
Lo
so, che questo piccolo sfogo non ha nessuna relazione con la commedia di
Gelindo, ma se ci pensiamo bene, tutta la nostra vita é una commedia e a volte,
bisogna saperla recitare e farsi largo per conquistare e acquisire qualche cosa.
Ma lasciamo questi pensieri e
ritorniamo alle memorie del professore, che poi, sono altro che i ricordi di
tutti noi, del nostro passato prossimo.
Il
professore Eco, prosegue nei ricordi della sua fanciullezza, dicendo: “ I
centurioni compaiono due volte (all’inizio incontrano Gelindo, alla fine
cercano il Bambino per ordine di Erode) e ogni volta la loro scena dura uno o
due minuti, con invenzioni degne del teatro dell’assurdo o della crudeltà.
Nessuno strumento di registrazione ( dato che l’evento era stato inopinato) ha
tramandato ai posteri quel mirabile evento, che ancora viene raccontato dai
vecchi attori di Gelindo, la sera intorno al fuoco.
“Queste
le notizie, segrete e riservate, che il libro di Leydi non vi dà. Però ne da
tante altre, che io non sapevo, e si esce da questa lettura dispiaciuti che
Aristotele, nella sua Poesia, non abbia analizzato anche questo fenomeno
teatrale. Ma forse ne parlava nel secondo libro, sulla Commedia, che come é
noto non ci é pervenuto, e quindi Leydi ha conclamato una lacuna”.
Noi
siamo geneticamente bene adattati al nostro ambiente. Le leggi della vita non
cambiano, come pure la storia. Anche la teologia é un linguaggio della natura.
Dio si manifesta ad ogni popolazione e ad ogni epoca in forma diversa. A
Gelindo, si é manifestato nella notte della Natività, in un epoca diversa
dalla nostra. E a ciascuna epoca pone un problema particolare, la sua
particolare sfida, la sua particolare prova. Alla nostra il grande distacco
delle cose, unicamente dovuto alla legge del “Tempo”.
Il
Natale é il momento più intimo dell’anno, quello delle giornate in cui il
pensiero per la famiglia e per gli affetti ci accompagna più spesso. E’ il
tempo dell’ attesa, del rinnovamento, e insieme della ricerca del dono da far
trovare sotto l’albero. Le famiglie si ricompongono, i presepi, gli alberi,
gli addobbi contribuiscono a formare la magia del momento. Tutto sembra
acquistare un ritmo più distaccato: anche le quotidiane attività, con lo
scandire dei giorni che separano dal 25 dicembre, diventano meno di routine e
cedono il passo ad una maggior voglia di essere disponibili.
E
poi, in questa solenne festa, come in Alessandria, la gente é più allegra,
come lo siamo stati noi un tempo, perché
avevamo un motivo in più: assistere alla commedia religiosa di Gelindo ritorna,
nella chiesa dei Cappuccini.